TUMORE DEL SENO, TEST GENOMICO
Dopo America e Europa, anche in Italia è possibile offrire alla donna il migliore trattamento adiuvante possibile a seguito di un tumore iniziale del seno.
“La comprensione che tumori apparentemente simili sono estremamente diversi da un punto di vista molecolare - spiega Giampaolo Bianchini, oncologo presso il Dipartimento di Oncologia Medica del San Raffaele di Milano – ha aperto una nuova strada per migliorare le cure in oncologia. Questo significa non solo cercare farmaci migliori per trattare il paziente, ma identificare il sottogruppo di pazienti che potrà davvero derivare un significativo beneficio terapeutico dai trattamenti attualmente disponibili. In quest’ottica i più recenti test su base genomica, rispetto alle metodiche standard utilizzate ad oggi nella pratica clinica corrente, consentono di selezionare con maggiore precisione il sottogruppo di donne che trattate con terapia ormonale e in assenza di coinvolgimento linfonodale, non è atteso possano beneficiare significativamente da un trattamento aggiuntivo chemioterapico sia perché il loro rischio di recidiva e’ estremamente basso e sia perché il beneficio atteso dalla chemioterapia in quel sottogruppo e’ estremamente basso. Anche una sottostima del rischio di recidiva con metodi non sufficientemente accurati e riproducibili può comportare da parte dell’oncologo il suggerimento di evitare un trattamento chemioterapico adiuvante, dal quale la paziente avrebbe invece potuto derivare un beneficio clinico”.
Dunque, in relazione alla capacità prognostica dei più recenti test genomici, punto focale è l’esecuzione del test prima dell’inizio di qualsiasi trattamento chemioterapico che potrà essere finalizzato nell’arco di 10-14 giorni (tempo massimo per conoscerne i risultati dell’esame) e realizzato su misura all’attività biologica (comportamento e natura) di ‘quel’ tumore. Fornisce infatti indicazioni terapeutiche strategiche quando i criteri abituali (età, dimensione del tumore, performance status, interessamento linfonodale, recettori) non indicano una sicura condotta da adottare. In un terzo delle pazienti sottoposte al test, l’oncologo ha potuto modificare il piano terapeutico evitando la chemioterapia in un quarto e aggiungendola nel 5-10% delle pazienti stesse. A garanzia dell’accuratezza diagnostica, vi è una misurazione (effettuata separatamente 3 volte) sui 21 geni in ogni campione tissutale e trials clinici effettuati su oltre 4 mila donne. Valore aggiunto, è anche la capacità predittiva che consente di stimare le probabilità di recidiva nell’arco dei successivi dieci anni misurata attraverso il ‘recurrece score’ (RS, un valore compreso tra 0 e 100), che ne determina anche il gruppo di rischio: basso (RS <18), intermedio (RS tra 18-30), elevato (RS>31).
“E’ finita l’epoca in cui il tumore della mammella veniva considerato una malattia unica – dichiara Michelino de Laurentiis, Docente di Oncologia Molecolare presso l’Università Federico II di Napoli e Direttore della Divisione di Oncologia Medica Senologica dell’Istituto Tumori ‘Fondazione Pascale’ della stessa città – assoggettata indistintamente a tutte le terapie possibili. Oggi ci stiamo orientando sempre più verso una ‘personalizzazione’ della terapia, che consiste nel definire caso per caso la migliore strategia terapeutica integrata. In quest’ottica, i più recenti test genomici sono in grado di dirimere i dubbi terapeutici in casi particolarmente difficili”.
“Data l’eterogeneità del tumore del seno – dichiara Wolfgang Eiermann, Direttore dell’Interdisciplinary Oncology Center di Monaco, Germania - è necessario arrivare a capire meglio la biologia del tumore, prerequisito fondamentale per un trattamento individualizzato. È infatti ormai chiaro che non è più possibile avere una unica strategia di approccio al tumore ma che, invece, occorre avvalersi di ulteriori parametri prognostici e predittivi che favoriscano la creazione di terapie mirate alle caratteristiche di ogni singolo tumore. Lo sviluppo di test che definiscono il profilo genetico di un tumore è un passo importante in questa direzione, aiutando anche a differenziare i pazienti con un basso profilo di rischio da quelli ad alto rischio, attraverso l’analisi dei geni correlati all'attività di proliferazione e all’espressione dei recettori ormonali”.
“In Italia e altri paesi – conclude Bianchini – il limite all’utilizzo dei più recenti test genomici è rappresentato dai costi in quanto, non essendo il test rimborsato dal sistema sanitario, sono a carico dei singoli pazienti. Sono dell’opinione che il Sistema Sanitario Nazionale del nostro paese, insieme agli organi istituzionali preposti e ai comitati scientifici italiani, in primis dell’AIOM, dovrebbero riunirsi intorno a un tavolo e valutare i potenziali vantaggi che in termini di costo-beneficio la rimborsabilità del test potrebbe portare, magari tenendo conto delle esigenze di contenimento dei costi nel sistema sanitario nazionale, identificando quei sottogruppi candidabili nei quali il rapporto costo-beneficio risulta persino più elevato. Tali vantaggi non sono identificabili soltanto nella possibilità di evitare le tossicità di un trattamento chemioterapico con un impatto ovvio in termini di qualità della vita senza ridurre le probabilità di guarire dal carcinoma mammario, ma anche, in una visione di contenimento dei costi, nella riduzione del costo di farmaci ed impiego delle risorse sanitarie nonché in termini di riduzione delle giornate di lavoro perse. Comunque, i vantaggi in termini di impatto sulla qualità della vita, sono i più importanti e non possono essere strettamente misurati dal punto di vista del guadagno o del risparmio economico”.