L'emigrazione degli italiani durante il fascismo
societa
10 Ottobre 2009 amministratore

L'emigrazione degli italiani durante il fascismo

Filosofia razionalista Corrente filosofica nata alla fine del XVII secolo, in cui la ragione era l'unico mezzo per l'analisi della realtà delle cose.

Violente ed immediate scoppiarono le reazioni dei Paesi più direttamente colpiti dal provvedimento, ed in primis dell'Italia, le cui più forti correnti migratorie verso la Federazione avevano appunto avuto luogo fra il 1910 e il 1914.

Anzitutto, sosteneva l'ambasciata italiana a Washington, la decisione di adottare il censimento del 1910 veniva ad alterare arbitrariamente una realtà etnica di fatto, per rifarsi a dati vecchi di dieci anni, che non trovavano più alcuna rispondenza con la situazione attuale.

Ed essa veniva interpretata, da alcuni degli stessi ambienti del Congresso, come intesa a fare della legge "un sistema selettivo per favorire alcune nazionalità a scapito di immigranti provenienti da Paesi meno graditi". Fra questi, appunto, l'Italia, nei cui riguardi, peraltro, il provvedimento veniva a contrastare con lo spirito e la lettera del Trattato di Commercio del 1871 , che prevedeva il trattamento di nazione più favorita.

Altrettanto decisamente veniva inoltre contestata la proposta di alcuni membri del Congresso di assegnare l'immigrante ad una determinata quota non già in base alla nazionalità risultante dal passaporto, bensì in funzione del luogo di nascita.

Una simile clausola, non solo avrebbe impedito alle varie nazioni ogni tipo di programmazione in campo migratorio, ma anche un'adeguata tutela dei propri cittadini, i quali, al momento della partenza dal Paese di adozione, si sarebbero trovati dell'impossibilità di sapere se la quota, mensile, del Paese, ove erano nati, si fosse, nel frattempo, esaurita o meno.

Formalmente, la posizione del governo italiano era ineccepibile. In realtà, un criterio così aleatorio, quale il Paese di nascita, mirava ad eludere la possibilità, di cui anche gli italiani abusarono in una certa misura dopo l'emanazione dell'Immigration Act, che i potenziali immigranti riuscissero a farsi ammettere negli Stati Uniti, assumendo temporaneamente la nazionalità di un altro Paese, il cui contingente non era ancora stato coperto.

Le proteste italiane ebbero quindi ben poca risonanza e dopo l'approvazione del decreto da parte della Camera dei Rappresentanti, i dibattiti al Senato per l'emendamento o meno della quota del 3 per cento, vennero aggiornati con la decisione di estendere l'applicazione del provvedimento al giugno 1923.

Oltretutto il Dipartimento di Stato rifiutò costantemente di ammettere che la legge prevedesse un qualsiasi trattamento discriminatorio nei riguardi dell'Italia, contrario al trattato del 1871 , declinando peraltro ogni responsabilità sulle delibere del Congresso, che erano di stretta competenza degli organi legislativi.

Malgrado questa ferma presa di posizione dell'Esecutivo sul piano diplomatico, la questione non mancava di sollevare accese polemiche negli stessi Stati Uniti. Allo scopo di salvaguardare gli alti salari operai dalla concorrenza della manodopera straniera, le organizzazioni sindacali facevano pressione sui poteri pubblici per rendere ancora più rigorose le disposizioni restrittive.

Per contro, gli industriali, allarmati dal crescente costo del lavoro, che incideva sempre più pesantemente sulle spese di produzione, auspicavano una riforma della legge in senso opposto.

 

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